Siamo fortunati, noi che viviamo nel cosiddetto occidente.
Non viviamo sotto una dittatura.
In molte delle nostre case abbiamo un’intera biblioteca (che funge anche da edicola), tutto dentro a una piccola scatola da cui possiamo attingere a informazioni di ogni tipo e visualizzarle su schermi sempre più grandi e sempre meno costosi.
Noi siamo fortunati.
Non lo era altrettanto chi viveva 100 anni fa, che doveva lavorare 14 ore al giorno per un briciolo di pane.
Non lo erano quelli che vivevano nella Germania nazista, nel Cile di Pinochet, nella Grecia dei regime dei colonnelli.
Non lo erano quelli che erano nati prima del ’68, che ci ha dato le basi per essere individui, che ci ha donato ideali di uguaglianza e fraternità. Poi noi l’abbiamo sprecato, l’abbiamo trasformato nel dogma di essere tutto ciò che si vuole, senza curarsi degli altri.
Ma questo non vuol essere un inno parziale in cui si dice che la rivoluzione è bella e sempre giusta. Basta ricordare quanto è accaduto in India poco prima della morte di Gandhi, quando a pochi passi dall’indipendenza induisti e mussulmani hanno cominciato a massacrarsi. Oppure gli anni di piombo, uno dei figli degeneri del ’68. E, tornando più indietro, al regno delle ghigliottine che ha seguito la rivoluzione francese.
L’essere umano, d’altronde, è un essere strano; può anche vivere per un ideale, ma che quando sta bene, quando ha da mangiare, quando può soddisfare anche solo piccoli lussi e ogni comodità, se ne frega del resto.
O meglio: molti di noi se ne fregano.
Leggete la vita di Gandhi, quella di Martin Luther King, guardate quei tanti film (“Prima che sia notte”; “Catch a fire”; “Hotel randa”) che ci mostrano gli orrori, i supplizi che fino a pochi anni altre persone come noi, cittadini del mondo, hanno dovuto subire.
E poi guardate noi, noi paladini della democrazia.
A cui piace cambiare la macchina, a cui piace avere un I phone senza sapere a cosa serve.
Guardate i nostri politici. Guardateli quella gente che noi abbiamo messo al governo, quelle persone che dovrebbero essere il meglio che abbiamo da offrire. Guardate le loro case, le loro auto, le ore che essi lavorano rispetto ad un operaio, guardate il loro stipendio, le loro rendite.
Ma ci indigniamo, questo lo facciamo.
Grazie alla rete facciamo sentire la nostra voce. E sembra sempre che si è sul punto di cambiare, di fare qualcosa di buono.
Invece non cambia nulla.
Forse perché le cose non cambiano quando si parla attraverso uno schermo, le cose cambiano quando si muovono le masse. Non le masse cibernautiche, no, quelle che si muovono a piedi, sulle strade. Ricordate la marcia di Martin Luther King, la massa presente ai funerali di Falcone. Quelle sono masse che hanno cambiato qualcosa, anche in piccolo, ma hanno cambiato le cose.
Invece noi si dibatte, velocemente, su una tastiera. E quando siamo stanchi stacchiamo e andiamo a guardare la televisione. Ci si raggruppa in gruppi di persone che la pensano allo stesso modo, chiudendo le porte al mondo esterno, tacendo in coro le critiche che vengono mosse.
Perché ancora non abbiamo imparato? Perché ancora non abbiamo capito che il cambiamento, quello vero, non la si fa proclamando da una tastiera. O meglio: non lo possiamo fare tutti. Di persone come, per citare un esempio, Pasolini non è, purtroppo, pieno il mondo.
Di certo non condanno l’uso della rete per esprimere le proprie idee, sia ben chiaro. Fortunatamente non è rarissimo trovare delle interessanti e motivanti discussioni “bipartisan”, soprattutto sui blog, a volte anche su Facebook. Tuttavia spesso i commenti si riducono a poche frasi, che hanno il sapore di stereotipi.
Forse non riusciamo, come massa, a produrre un vero cambiamento perché, in fondo, “stiamo bene”. E quando sei sazio e soddisfatto, spesso diventi pigro.
Eppure lo stesso possiamo fare qualcosa: basta sedersi con una persona e parlare, discutere, confrontarsi. Cambiare il mondo una testa alla volta e arricchirci anche noi da queste discussioni. E non importa se la persona con cui si parla abbia delle idee opposte: il confronto civile è sempre nutrimento di idee e le idee, per restare vive, devono mutare.
Altrimenti continueremo ad andare avanti così, chiusi nel nostro mondo di benessere, in un silenzio pieno di parole.
Mauro Biancaniello
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