giovedì 30 agosto 2012

Ulisse: il maledetto

La mitologia greca secondo J.P. Vernant

6. Ulisse: il maledetto




La guerra di Troia è terminata, i greci hanno vinto, anche grazie alla famigerata intuizione di Ulisse: Il cavallo di Troia.
Ora la nostra attenzione si sposta su colui che compirà uno dei viaggi più lunghi, di cui più si è discusso: L’Odissea
Terminata la guerra, Ulisse freme per partire. Non è l’unico, con lui c’è anche Menelao. Di idee diverse il fratello Agamennone, il quale si ferma a Troia per rendere onore ad Atena, dea della saggezza che ha favorito la loro vittoria.
Ulisse quindi parte con la sua flotta di 12 navi, sulla sua stessa imbarcazione si è fermato anche Menelao. I due, dopo poco tempo, hanno un diverbio e Ulisse ritorna a Troia per unirsi ad Agamennone.
Ulisse quindi lo attende e lo riparte con lui, ma, appena inizia il loro viaggio, una tremenda tempesta disperde la flotta, isolando quella di Ulisse.
Terminata la tempesta, Ulisse sbarca in Tracia, nel paese dei Ciconi. Riceve un’accoglienza ostile e decide di conquistare la loro città, Ismaro, uccidendo la maggior parte degli abitanti. Questa “abitudine” di uccidere i vinti era prassi comune di molti eroi greci.
Ulisse lascia vivo Marone, sacerdote di Apollo, il quale, in segno di riconoscenza, gli lascia numerosi orci di un vino straordinario.
Al termine della conquista, i greci risalgono sulle navi, in attesa di ripartire il giorno dopo.
Ma Ulisse ignorava che ci fossero anche Ciconi nell’entroterra, i quali attaccano i greci durante la notte, mietendo numerose vittime e obbligandoli a una brusca fuga.


I) Verso il paese dell’oblio


Ulisse, con l’equipaggio superstite, si rimette in viaggio per Itaca. La destinazione si fa sempre più vicina, ma, quando ormai il suo paese è visibile a occhio nudo, una terribile tempesta si abbatte su di loro. Durerà sette giorni e farà ritrovare Ulisse e i suoi compagni in luoghi sconosciuti.
Quello che i viaggiatori ignorano, è che hanno superato un velo simbolico, che separa l’umano dall’esoterico: i luoghi che si apprestano a visitare appartengono al non-umano. Ulisse incontrerà esseri (come Circe) che si nutre di ambrosia, il nettare degli dèi, o esseri terrificanti come i ciclopi.
Dopo la tempesta, Ulisse e i suoi scorgono una costa. Attraccano e vengono ben accolti dai Lotofagi, indigeni dalle sembianze umane ma che si nutrono del loto e, in quanto tale, soggetti a un continuo oblio che annulla la loro memoria, facendoli vivere in un’esistenza nebbiosa.
Le staffette che hanno esplorato la prima parte dell’isola, quelli che per primi hanno avuto contatto con i Lotofagi e hanno assaggiato le loro pietanze, si rifiutano di partire, immemori di quanto sia loro accaduto durante la perlustrazione. Non hanno memoria, non hanno progetti, vogliono solo restare lì, in quell’isola.
Ulisse li imbarca a forza sulla nave e riprende in fretta il viaggio.
Il primo luogo che Ulisse visita nella sua Odissea è, quindi, un luogo di oblio: nell’oblio tutto si confonde, per far restare solo il presente. Quindi anche il ricordo della casa che aspetta si fa lontano e poco allettante.
L’isola dei Lotofagi diviene il simbolo di quello che sarà questo viaggio: cercare di sfuggire alle tentazioni che possano portare lontani da casa, dalla rota che ci si era fissati.


II) Nessuno e il Ciclope


Dopo essere scappati dall’isola dei Lotofagi, i marinai si vedono avvolti da una fitta nebbia. Riescono a scorgere a fatica un isolotto e lì vi approdano, completamente avvolti dall’oscurità.
Da un’altura vedono gli abitanti dell’isola: i giganteschi ciclopi, dotati di un solo occhio enorme. Ulisse cerca un rifugio, un luogo sicuro dove trovare provviste: messa a sicuro la barca in una baia nascosta, con dodici uomini si avventura nell’isola, trovando una grande grotta.
Si trovano così in un rifugio pieno di greggi e formaggi. E se i suoi compagni lo esortano a razziare il possibile e fuggire, Ulisse s’intestardisce nel rimanere: lui vuole vedere, vuole conoscere il proprietario di quella grotta.
Si aggiunge una nuova sfaccettatura al carattere di Ulisse: non solo l’uomo che deve ricordare il suo passato, ma anche l’uomo che deve vedere, provare esperienze.
Non devono aspettare molto che il ciclope ritorna, scovandoli. Si rivolge ad Ulisse, il meno spaventato, chiedendoli il suo nome e da dove viene.
Ulisse omette di avere ancora un’imbarcazione, dice di essere un naufrago con i compagni, che chiede ospitalità.
Al ciclope non interessa la richiesta: prende due dei marinai, li sbatte contro il muro, fracassandone la testa per poi mangiarseli.
Ulisse cerca di trovare una soluzione, una via di scampo: la grotta è chiusa da un enorme masso che nemmeno tutti i suoi compagni potrebbero spostare.
Passano le ore e il ciclope divora altri due uomini.
Ulisse passa una notte tremenda, seguita da un’altra giornata orribile, con altre quattro morti: due al mattino e due alla sera.
Chissà se pensa al fatto che la sua curiosità ha portato alla morte la metà del suo equipaggio? Quanto è legittimo che costi il sapere?
Pian piano comincia a balenarli un piano: Vedendo il ciclope sazio, deduce che, stavolta, possa essere più ben disposto a parlare. Scopre così che il gigante si chiama Polifemo (persona di grande appetito e con una gran voglia di parlare), ma quando questi gli chiede il suo nome, egli risponde di chiamarsi Outis, ovvero Nessuno.
La scelta non è ovvia solo per un motivo:
La sillaba Ou di questa parola esprime, come anche la sillaba Me, una negazione, quindi sono sillabe che possono equipararsi.
Praticamente è come se Ulisse dicesse di essere Nessuno (Outis) e Metis (Astuto).
Egli, è, in fatti, l’astuto, colui che sa cavarsela in ogni situazione e che a essa si adatta.
Polifemo comincia ad interessarsi a lui, promettendoli di mangiarlo per ultimo.
Per ringraziarlo, Ulisse gli dona del vino (quel vino straordinario ricevuto da Marone dell’isola dei Ciconi). Polifemo, ebbro di vino e di cibo, si addormenta. Ulisse ha così il tempo di far arroventare sul fuoco della caverna un grande palo di ulivo, che, con i suoi compagni, taglia con cura, appuntendolo.
Terminata l’opera, il ciclope è ancora addormentato: Ulisse, con l’aiuto dei compagni, conficca il palo incandescente nell’occhio di Polifemo, accecandolo.
Polifemo si sveglia urlando dal dolore. Gli altri ciclopi accorrono, stanno per togliere il masso dalla caverna:
“Cosa ti succede”?
“Mi stanno uccidendo!”
“Chi?”
“Nessuno!”
I ciclopi, smarriti, se ne vanno, convinti che Polifemo stia delirando: come può qualcuno venir ucciso da nessuno?
Intanto Ulisse si prepara ad uscire dalla grotta: ogni membro dell’equipaggio si lega con delle verghe di vimini sotto il corpo di uno degli animali di Polifemo e quando questi sposta il masso, facendo uscire il gregge, i marinai possono passare senza che Polifemo, toccando velocemente il bestiame, possa accorgersi della loro presenza.
Appena usciti dalla caverna, i marinai scappano verso la baia, dove li aspettano i loro compagni, rimettendo in mare l’imbarcazione.
Ulisse vede Polifemo su un’altura che, furioso, lancia sassi alla cieca giù per la scogliera.
Egli non sa resistere:
“Se qualcuno ti chiede chi è stato ad accecarti, digli che è stato Ulisse!”
E questo sarà il secondo errore che il, solitamente, scaltro Ulisse compie sull’isola dei ciclopi: non è più protetto dall’anonimato, ora il suo gesto ha un nome da associare e Polifemo, figlio del dio dei mari Poseidone, indirizza la sua ira verso quest’uomo, di cui ora conosce il nome e lo maledice:
Che Ulisse patisca mille sofferenze prima di tornare a casa, che rimanga solo, con i compagni morti e la nave distrutta. E se dovesse davvero arrivare a Itaca, che sia come sconosciuto, non come persona il cui ritorno venga festeggiato.
Poseidone ode la maledizione del figlio e la accoglie, lui, uno degli dèi più potenti dell’intero Pantheon greco, colui che domina l’acqua e gli oceani.
E quindi Ulisse, che ha condannato all’oscurità Polifemo, da questi sarà a sua volta condannato a una vita nelle tenebre, sempre più vicina all’oblio, alla solitudine e alla sofferenza.


III) Venti capricciosi


Ormai persi, Ulisse e i suoi giungono sull’isola di Eolo, dio del vento. Egli vi abita unicamente con i suoi famigliari, senza contatti col mondo esterno, tutti coinvolti in relazioni incestuose.
In qualità del dio del vento, egli governa gli elementi che possono aprire, ma anche sbarrare, le vie di un marinaio.
Eolo accoglie bene Ulisse e da lui richiede (e riceve) notizie sul mondo esterno. Tanto il viaggiatore entra nelle sue grazie che egli gli regala un otre, non contenente vino, bensì dei venti speciali, che aiuteranno Ulisse nel suo ritorno a casa. Ma lo avvisa: il contenuto è da versare con cura, i venti possono essere capricciosi quando fuori controllo.
Ulisse, felice, lo ringrazia e riparte allegramente. Segue i consigli del dio del vento e presto la sua nave si ritrova a poca distanza da Itaca. Ulisse si rilassa e si fa cogliere dal sonno. I suoi marinai, mentre egli riposa, decidono di vedere cosa contiene l’otre, memorid dell’ottimo vino di Marone. Aprono il tappo senza pensarci e i venti fuoriescono, portando lontano la nave, di nuovo in terre sconosciute, di nuovo nel non-umano.
Ulisse si sveglia e s’infuria con i suoi. Invoca Eolo, gli chiede una seconda possibilità, spiegando l’accaduto, ma il dio rifiuta:
“Devi essere stato maledetto da qualcuno di potente se qualcosa di simile è potuto accaderti.”
Ancora una volta l’oblio (stavolta il sonno) minaccia il ritorno a casa di Ulisse, seppure questi fosse riuscito, grazie alla sua sagacia e parlantina, a trovare un rimedio.
E qui il racconto (in questo caso quello narrato da Ulisse) diviene merce di scambio gradita, la cortesia d’intrattenere qualcuno che vive da eremita porta a ricevere benevolenza e doni sorprendenti.
Come se il racconto del mondo fosse un bene prezioso, da condividere con spontaneità.


IV) I divoratori


Di nuovo in viaggio, Ulisse e i suoi approdano all’isola dei Lestrigoni.
Stavolta Ulisse fa tesoro della sua esperienza: invece di lasciare la sua barca in quella che sembra un porto, si ferma in una baia discosta e fa esplorare l’isola da alcuni marinai.
Questi presto incontrano una donna dalle dimensioni immensi, una matrona molto più grande di loro. Li accoglie con loro:“Venite con me, mio padre, il re, vuole conoscervi e donarvi ciò di cui avete bisogno.”
Seppur sospettosi, i marinai, allettati dalle offerte, la seguono, ma appena giunga al cospetto dell’enorme re, questo ne afferra uno e se lo divora. Gli uomini inorriditi scappano, riescono a giungere nei pressi della nave, urlando ai compagni che bisogna fuggire. Inseguiti dagli enormi abitanti del villaggio, vengono però presi, come se questi aspettassero il momento di vedere dove fosse riparata la nave da cui erano giunti.
Solo Ulisse e le poche persone che erano rimaste sulla nave sopravvivono al massacro: chi aveva deciso di scendere non fa in tempo a mettersi in salvo.
Il nuovo può nascondere insidie, va approcciato con curiosità ma con cautela, in quanto non si sa cosa può attenderci dietro un angolo buio.


V) Colei che trasforma gli uomini in porci


I superstiti raggiungono l’isola di Eèa. In virtù delle passate esperienze, vengono prima mandati degli esploratori per ispezionare il luogo. Ovviamente stavolta i marinai sono restii e Ulisse fatica non poco a convincerli ad andare.
Gli esploratori giungono in una graziosa dimora, dove tutto appare normale. L’unica anomalia è la presenza di un gran numero di animali selvaggi nei pressi della casa, tuttavia molto docili, seppure vi siano anche lupi e orsa.
Bussano alla porta della casa e apre loro una fanciulla molto graziosa, che li invita ad entrare e offre loro da bere. Ma nella bevanda ella mescola un liquido che ha una magica proprietà: basta berne un goccio per trasformare un uomo in un maiale.
Ulisse, intanto sempre più preoccupato nel non vedere tornare nessuno, si reca egli stesso alla ricerca dei compagni perduti. Sul suo cammino si trova davanti il dio Hermes, che lo avvisa che delle magie della fanciulla, la quale porta il nome di Circe. Gli dona una radice nera che lo salverà dalla trasformazione.
Ulisse ritorna brevemente alla nave, per informare loro di cosa è accaduto. Seppure i compagni gli chiedano di scappare, egli, forse per il senso di colpa dovuto alle tragedie che ha fatto subire ai suoi uomini, decide ugualmente di cercare di salvare i dispersi.
Arrivato alla casa di Circe, Ulisse fa finta di nulla, accettando l’ospitalità e non mostrandosi in alcun modo reticente o sospettoso.
Circe offre anche a lui la bevanda, ma, vedendo che non sortisce alcun effetto, capisce che egli è l’uomo il cui arrivo aveva predetto grazie alle sue arti, l’uomo che resisterà ai suoi incantesimi.
Svelato il gioco, acconsente a far tornare umani i marinai e spiega ad Ulisse il perché del suo gesto: Vivendo solitaria sull’isola, ella voleva circondarsi di persone che sarebbero rimaste con lei e questo, purtroppo, era l’unico modo, in quanto i viaggiatori avevano sempre una meta a cui tornare.
I marinai, tornati uomini, si scoprono più giovani, più vitali, come se la traversia subita li abbia resi più forti.
Essi hanno subito una trasformazione che li ha allontanati, per un breve periodo, dalla condizione umana, restituendoli, quindi, alla loro forma con maggiore vigore, come dopo un profondo sonno ristoratore.
Ulisse, invaghito da Circe, decide di fermarsi del tempo con lei e chiama i suoi uomini a raccolta, facendoli sbarcare dalla nave. Gli uomini, inizialmente restii, dopo qualche giorno comprendono di non rischiare alcun pericolo e si godono la pace dopo le traversie subite. Tra Ulisse e Circe nasce una relazione appassionata.
Ma non può durare, anche perché i marinai, che, al contrario di Ulisse, possono avere solo riposo, chiedono di rimettersi in viaggio.
Circe comprende e da il suo consenso, dando preziose indicazioni all’equipaggio sulla prossima isola che li aspetta nel loro viaggio: il paese dei Cimmeri.
Una donna solitaria, la metafora della bella donna sedotta e abbandonata, a cui non bastano le doti femminili per far restare presso di sé gli uomini. Li trasforma quindi in bestie, che sa essere fedeli, trascendendo il desiderio fisico e vivendo con loro in un’armonia platonica.
Ed è forse con sollievo che si accorge che Ulisse resiste alla sua magia, un Ulisse non conquistatore, che si muove con cautela ma senza distruggere, capace di donarsi interamente a questa donna che ha bisogno di affetto .
Circe è quindi la maga che ricorre alle arti per necessità, perché incapace di svolgere i compiti che la società dell’antica Grecia aveva fissato per le donne: Essere di bell’aspetto, focose e ottime casalinghe. Come i suoi ospiti possono constatare, ella è cordiale come la migliore delle concubine, tuttavia resta fedele alla monogamia con il “suo”Ulisse.
Fa riflettere che sia proprio Hermes, dio dei viandanti e dei libri, ispiratore della parola, a offrire aiuto all’astuto Ulisse. Forse lo fa per vendetta, in una lunga faida che coinvolge la zia di Circe. Oppure, forse, perché in Ulisse vede il suo specchio umano.


VI) I senza volto


L’isola dei Cimmeri è il limite estremo tra la vita e la morte: i suoi abitanti non sono già più in vita, masse informi dai contorni non definiti, si muovono in gruppo.
Ulisse, prima di approdare sull’isola, prepara i riti consigliati da Circe, mischiando farina a sangue di ariete.
Per uno come Ulisse, per colui che non deve dimenticare, è forte l’emozione di vedere questo popolo di “nessuno”: senza volto, senza nome, gli abitanti dell’isola dei Cimmeri hanno perso la loro caratteristica personale, divenendo “non persone” ma esseri tutti simili, dai contorni fumosi.
La gloria, la fama, lì non hanno alcun valore: i senza volto sono dimentichi di tutto, non solo del loro nome, ma anche delle gesta di altri.
Appare Tiresia, l’indovina, a cui Ulisse consegna il sangue mescolato che ha preparato.
Ella ne beve e fa la sua predizione, dicendogli che farà ritorno a casa. Lo informa anche di ciò che accaduto ai suoi compagni di battaglia, tra cui la morte di Agammenone (una tragica storia di cui qui non ci dipingeremo).
Tra la folla dei senza volto, Ulisse, con fatica, riconosce dei volti di noti eroi, tra cui Achille.
Gli si avvicina e riesce a dargli un po’ di sangue.
Il sangue, la linfa della vita, riporta Achille alla ragione e al ricordo.
È amareggiato Achille, rimangia le sue parole sul morire giovani e nella gloria, perché la gloria postuma ha poco lavoro, quando si è solo un’anima costretta a vagare senza meta né ricordi.
Omero, quindi, con l’affermazione che fa compiere a uno dei personaggi cardini della sua Iliade, ne rivolta lo spirito in questa nuova opera che è l’Odissea. Quasi a voler dire che la gloria non ha importanza: ha importanza la vita e la sua celebrazione costante, rimandando il buio della morte il più a lungo possibile.
Ulisse, che tiene bene a mente le parole dell’amico, riprende il suo viaggio.
Ulisse sfiora, in questa tratta, la morte da vicino. Una morte che è nulla assoluto, senza consolazione. Che senso ha morire se poi non vi è nient’altro che dimenticanza e assenza? Allora meglio restare vivi, aggrapparsi alla vita anche con sofferenza: tutto è meglio del nulla.


VII) Resistere al canto delle sirene


C’è chi dice che i viaggiatori decidono di tornare brevemente a far tappa sull’isola di Circe, altri sostengono che Ulisse abbia continuato il suo viaggio direttamente dopo l’isola dei Cimmeri, ma ciò in cui tutti concordano è su un altro avvertimento che la maga aveva donato: Da dei consiglia di evitare il pericolo delle Rupi erranti, le quali non sono fissate al suolo marino e si aprono e si chiudono continuamente. Le rotte da prendere sono due, ed entrambi comportano il fatto di dover entrare in territori governati da mostri: Scilla (che sta su uno scoglio a picco sul mare e divora i marinai) o Carridi (mostro enormemente vorace che rischia di inghiottire l’intero equipaggio. Ad ogni modo Ulisse dovrà passare davanti all’isole delle sirene, le quali, con il loro canto, attirano i marinai che perdono la ragione, affogando nelle acque per arrivare a loro e le barche, non più governate, si schiantano contro gli scogli.
L’ingegnoso Ulisse trova un modo per evitare il loro canto, facendo indossare ai suoi uomini dei tappi fatti di cera.
Ma lui, colui che non vuol dimenticare, colui che deve vedere e sperimentare, si fa legare ad un albero della nave.
Giunti all’isola delle sirene, si leva presto il loro canto.
Ulisse si dimena come un forsennato, inebriato, pronto a raggiungerle, le corde lo trattengono a stento.
Le sirene promettono canti di gloria dedicati agli eroi e alle sue gesta.
Lunghi minuti passano finché il loro canto è lontano, solo allora Ulisse può tornare a ragionare.
Perché egli è stato succube del canto di donna che ammalia l’uomo con promesse (un altro stereotipo della cultura patriarcale). Ma non è solo l’erotismo a far tentare ad Ulisse di spezzare le corde, bensì anche la promessa di canti di gloria.
È quindi questo miscuglio di sesso e gloria che inebria l’eroe maschile, solleticando i suoi istinti: quello primordiale dell’accoppiamento e quello della ricerca di affermazione.
Nessuno può resistere, nemmeno la volontà di ferro di Ulisse, che si è dovuto far intrappolare, non darsi via di fuga, per resistere a una tentazione troppo grande.


VIII) Attento a ciò che mangi


Attraversato il canto delle sirene, Ulisse, tra due alternative terribili quali Scilla e Carridi, sceglie quello che ha meno possibilità di affondare l’intera nave: Scilla.
Passando dal suo territorio, tuttavia, Scilla riesce a sorprenderli, divorando alcuni marinai. Il loro numero è sempre più esiguo…
I viaggiatori giungono così a Trinachia, l’isola del Sole. Lì vivono delle mandrie divine e immortali, che non hanno bisogno di riprodursi.
Teresia aveva avvisato Ulisse in merito: non toccare quelle bestie, se anche uno di loro viene a contatto con uno dell’equipaggio, allora il rientro a casa diverrà praticamente impossibile.
Approdati all’isola, Ulisse mette bene in chiaro le cose: Le mandrie non vanno toccate in alcun modo; l’equipaggio deve servirsi unicamente del cibo a bordo. Le vacche, infatti, sono protette e guardate dal sole, che vede tutto, e la sua vendetta potrebbe essere terribile.
Ulisse vorrebbe fare solo una breve sosta, ma l’equipaggio, stremato nel corpo e nell’anima, si rifiuta. Ulisse acconsente a farvi permanenza, ricordando di mangiare unicamente le provviste date da Circe.
Pronti per salpare il giorno dopo, si abbatte una tremenda tempesta che impedisce loro di partire, obbligandoli a una lunga sosta. Tanto dura che le provviste iniziano a scarseggiare,; i risultati di pesca non riescono a calmare la fame dei marinai. Ulisse, nel frattempo, aveva deciso di visitare l’isola, addormentandosi profondamente su un colle.
L’oblio, quindi, ritorna in questo racconto:
L’oblio non è solo il dimenticarsi, ma è anche detto Notte, Notte che è padre della Fame (che attanaglia i marinai). Notte che è sinonimo di sonno, che avvolge lo stanco Ulisse.
In assenza del loro capo, i greci non sanno più trattenersi: alla vista delle grasse mandrie, decidono di mangiarne la carne, dimentichi (ancora l’oblio) o incuranti delle parole di Ulisse.
Ma le bestie sono immortali, persino macellati e arrostiti sul fuoco si sentono i loro lamenti.
È l’odore di carne cotta che sveglia Ulisse, il quale si precipita a controllare , osservando con tristezza l’immondo spettacolo e i terribili suoni.
I marinai non se ne curano: accecati dalla brama, divorano alcune bestie.
I marinai mischiano il sacro (le bestie divine, che, per quanto bestie, non sono soggette alle regole di allevamento umano, foss’anche solo perché sono immortali) e il profano (l’arcaico senso di caccia e nutrimento umano).
Ma loro non se ne curano, rimettendosi presto in viaggio non appena il tempo si calma.
Tremenda è l’ira del dio Sole che si reca da Zeus a raccontare il misfatto.
Zeus decide di intervenire:
Questi uomini hanno portato l’umano nel divino, notte/oblio nella terra del Sole.
Il padre degli dèi scaglia uno dei suoi potenti fulmini e incenerisce parte della nave.
Solo Ulisse sopravvive al fuoco e all’abbissarsi della nave e forse solo la sua enorme volontà gli permette di sopravvivere per lunghi nove giorni, in balia delle onde e aggrappato a un misero relitto.
Coloro che hanno infranto la barriera del divino ora giacciono sul fondo del mare, uccisi per la colpa di aver seguito istinti arcaici e non il buon senso.

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