Uno si chiama Bruno, ha 9 anni. È un bambino normale, con i
suoi innocui egoismi e una naturale tendenza a vedere il mondo per i suoi
aspetti positivi.
L’altro si chiama Shmuel, anche lui ha quasi la stessa età
di Bruno, ma è più magro, con così poca pelle che appare quasi trasparente.
Si parlano attraverso un recinto.
Bruno è il figlio di un comandante dell’esercito, il padre
di Shmuel è un ebreo.
La casa di Bruno dista pochi metri dal campo di
concentramento di Auschwitz.
John Boyne ci mostra una storia diversa da quelle finora
lette sui campi di concentramento, lo fa attraverso gli occhi di un bambino
cresciuto nell’agio, rimasto da solo in un casa separata dal resto del paese da
un recinto. E lui vorrebbe poter giocare con tutti quei bambini che vede dall’altra
parte del recinto, ma nessuno gli spiega perché non può farlo.
Il mondo, a tratti fantastico, dei bambini si mischia con la
realtà, in questo sguardo pieno di umanità su una tragedia che non sarebbe mai
dovuta accadere.
E il lettore adulto sente narrare la storia attraverso lo
sguardo di questo innocente, che riesce ad alleviare il senso di tragedia e, a
tratti, porta a far sorridere delle ingenuità proprie dell’infanzia. Si
vorrebbe vedere la storia come fa Bruno, ma noi, adulti, non possiamo, e ci
struggiamo nel seguire questa tragica vicenda, raccontata con inedita
leggerezza.
Stiamo parlando di "Il bambino con il pigiama a righe" di John Boyne, edito da BUR
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