1. Parricidio - Noi e loro, prima del '77
Achille
Ardirò, sociologo cattolico e preside della facoltà di Scienze politiche di
Bologna, nel 1977 sosteneva che fra Comunione e Liberazione e L’Autonomia ci
fossero profonde affinità culturali.
Tratto
da “l’ultrasinistra in Italia, 1968-1978” di M. Monicelli, edizioni Laterza
Roma-Bari, 1978:
“La base di massa è identica: una popolazione giovanile marginale e
marginalizzata, senza padre, bloccata in una condizione di adolescenza
prolungata e quindi alla ricerca disperata di un rapporto con la società
adulta, in bilico tra aggressività, distruttività e dipendenza.”
Nel
1977 la sinistra uccise suo padre, il Partito comunista italiano, un delitto a
lungo cercato. Nel 1978 la famiglia politica democristiana uccise suo padre,
nel corpo di Aldo Moro. E se il delitto Moro nel 1978 avrebbe minato la stessa
esistenza concettuale di una politica dei cattolici, il parricidio avvenuto nel
1977 nei confronti del Partito comunista fu un atto di distruzione che ancora
oggi (dopo il 2000) fa sentire la sua eco e il suo peso nella cultura della
sinistra.
Il
parricidio venne consumato quasi fisicamente nell’espulsione dall’Università di
Roma occupata di una delle figure più potenti del movimento operaio, il capo
della Cgil Lorenzo Lama. Un atto fino a pochi mesi prima inimmaginabile, che rompe
il tabù e il credo della mitologia operaia. Dopo quell’attacco la storia della
sinistra non sarà più la stessa: una lunga fase finisce, l’onda lunga del ’68
studentesco e del ’69 operaio. Si interrompe – per via di implosione – la
rincorsa al governo del Pci; la parola passa alle armi, che preparano il
rapimento di Aldo Moro. Il 1977, che parte il 17 febbraio con l’attacco a Lama,
conclude il suo perfetto ciclo di distruzione nel marzo 1978 con il rapimento
di Moro.
Il
1977 ha rappresentato, con tutti i suoi intensi messaggi, una parabola
etico-politica che contiene ancora oggi insegnamenti per tutti (radicali e
riformisti, ex comunisti e moderati, cattolici e laici) in merito a quello che
si deve e soprattutto non si deve fare più.
Tratto
da “una sparatoria tranquilla. Per una storia orale del ‘77” di V. Miliucci,
edizioni Odradek Roma, 1997
“Il
due febbraio il movimento si mete in moto (…) si usa lo spazio delle
università, ma si usano anche le sedi del movimento antagonista… Via dei
Volsci… le sedi delle case occupate a San Lorenzo. Il territorio intorno
all’Università era sotto il controllo dei Comitati autonomi operai. Da
una parte il quartiere San Lorenzo con la sua lunga tradizione di resistenza
popolare e antifascista, giä luogo di tutte le sedi degli extraparlamentari –
Voce operaia, Nuclei comunisti rivoluzionari, Lotta continua, Lotta comunista.
Quello che passerà alla storia come il Collettivo di Via dei Volsci era già in
San Lorenzo una forza riconosciuta e protetta dal quartiere per essere alla
testa dei bisogni popolari – case, bollette, asili nido – , in grado di punire
i balordi che tentano lo spaccio di eroina, di respingere le provocazioni
poliziesche. Una zona franca in cui anche il sindaco non era il
benvenuto, nonostante il Pci nel 1976 prendesse la maggioranza dei voti. (…)
Dall’altra parte dell’Università c’è il Policlinico Umberto I, sede della più
lunga e autonoma lotta vincente dei lavoratori ospedalieri, che si sono già
assunti la protezione dell’Università dallo squadrismo fascista. L’auletta del
Policlinico è la sede del soviet romano, in cui vive la politica
nell’espressione più compiuta della democrazia diretta.”
Quella
che racconta Miliucci é un’area geografica di vari chilometri quadrati nel
pieno centro di Roma, una zona franca in cui “il movimento si trovava ben
protetto dai due angeli custodi del Policlinico e di San Lorenzo”.
Un’altra strada però chiude lo spazio in un triangolo: Via dei Frentani. Sbocca
davanti alla Sapienza e delimita, con lo sgradevole effetto di una barriera, lo
spazio nella quale il movimento si ritiene libero di muoversi. Via dei Frentani
è l’indirizzo della Federazione romana del Pci. È proprio in quell’area
nutrita, esattamente come il movimento, della popolarità folcloristica e
cocciuta di San Lorenzo, che si afferma il mito della battaglia della
resistenza romana: operai urbani, dei servizi più che delle fabbriche,
muscolosi, allegri, minacciosi e orgogliosi. In questo triangolo per lungo
tempo bolle il risentimento del confronto, poi precipita la preparazione allo
scontro.
Tratto da “la Repubblica” del 19.02.1977, di C. Rivolta:
“17
febbraio 1977. Alle otto di mattino (…) gli schieramenti nell’università erano
già formati (…). Il servizio d’ordine del sindacato e del Pci (…), qualche
giovane del Fgci (…). Armati di pennelli e vernice sindacalisti e comunisti
cancellavano le scritte degli indiani metropolitani, l’ala creativa
del movimento, composta essenzialmente da militanti dei circoli del
proletariato giovanile. (…) Gli indiani non stavano a guardare. Su una scala da
quelle da biblioteca (con le ruote e un palchetto con ringhiere) avevano
piazzato un fantoccio a grandezza naturale in polistirolo che doveva
rappresentare il leader dei sindacati. Circondato da palloncini, portava appesi
tanti grandi cuori. C’era scritto: Lama non l’ama nessuno. (…) Assiepati
intorno alla Facoltà di Lettere gli indiano ballano, cantano, scandiscono
slogan polemici. Ritmano ossessivamente sa-cri-fi-ci, sa-cri-fi-ci. Ce
l’hanno con il governo Andreotti, ma soprattutto con i partiti dell’astensione.
Alle 8,30,
davanti alla Facoltà di Lettere c’è uno degli episodi chiave, rimasto ignorato
dalla gran parte dei presenti. Quattro persone, infreddolite, preoccupate, una
delegazione dell’Intercollettivo universitario, aspettano Aurelio Misiti,
segretario romano della Cgil scuola. Avevamo un appuntamento – diranno
ore dopo – per concludere un accordo già preso ufficiosamente la sera prima:
al comizio dovevano esserci anche i nostri interventi. La posizione del
movimento era quello dello scontro politico, la critica aperta, ma in termini
pacifici, e questa linea era legata indissolubilmente alla nostra
partecipazione al comizio. Misiti non verrà all’appuntamento. L’attesi si
prolunga per una mezz’ora, poi i quattro, delusi, si mescolano alla folla.
Il clima
intanto si va surriscaldando. Intorno al carroccio degli indiani (ma
c’erano dietro anche tutti gli altri collettivi, i militanti dei gruppi e un
paio di rappresentanti del Fuori) il servizio d’ordine ha steso un cordone sanitario
che ritaglia una larga fetta della piazza. (…) gli indiani pigiano sul pedale
dell’ironia e del sarcasmo anche pesante. (…) I militanti del Pci sono a questo
punto non più perplessi, ma dichiaratamente ostili. Rispondono con altri
slogan. (…) Dall’altra parte del movimento rimbalzano slogan non più ironici ma
di aperta contrapposizione politica: Provocatori sono Pci e sindacato che
pieni di paura invocano lo stato, Via, via la nuova polizia. (…)
A ranghi
serrati il servizio d’ordine sindacale e del Pci stringe dappresso indiani,
collettivi, autonomi. La gente assiste perplessa, qualcuno già spaventato. Il
punto di attrito più caldo è intorno al carroccio degli indiani, davanti
al quale sono schierati il servizio d’ordine della Federazione romana del Pci e
i giovani della Fgci. (…)
Dagli
altoparlanti le note delle solite marce da comizio non riescono a
soffocare gli slogan ironici degli indiani. (…) Le contraddizioni di due
mondi completamente diversi, quello dei sindacati e dell’ortodossia comunista e
quello della creatività obbligatoria (…). Erano ormai due blocchi
contrapposti e nemici. (…)
Alle 10 del
mattino Lama inizia il suo comizio. (…) Dal carroccio degli indiani vengono
lanciati dei palloncini pieni di acqua colorata e di vernice. (…) Parte allora
una carica per espugnare il carroccio degli indiani. Travolta l’ala creativa
del movimento, il servizio d’ordine del Pci entra in contatto con l’ala militante.
Volano pugni, schiaffi, calci, poi il carroccio torna in mano agli occupanti
dell’Università, che lo usano come un ariete per contrattaccare. (…) Mentre
Lama continua il suo discorso al centro della piazza, fra i due schieramenti
ormai ö un continuo avanzare e arretrare a pugni e botte.”
Il comizio
dura poco, alle 10,30 s’interrompe di netto e Lama scende in tutta fretta.
Tratto da “la Repubblica” del 19.02.1977, di C. Rivolta:
“Un’ultima
carica violentissima spazza via il servizio d’ordine del Pci e dei sindacati
che stanno proteggendo il deflusso dei suoi militanti. Il camion viene
capovolto, distrutto, poi si scatenano le risse. A gruppi di due o tre, di
dieci quindici persone, nei viali alle spalle del rettorato studenti e
militanti del Pci e dei sindacati si affrontano, a bastonate, a colpi di
spranga, di chiave inglese e sassate.”
In
realtà, per i membri del movimento, in particolare i più giovani, quello che
andava in scena aveva poco a che fare con la politica e molto di più con la
figura dei padri. Quel giorno ritorna spesso, nelle memorie raccolte di questi
militanti, come il momento della rivolta generazionale contro padri che non
capiscono.
Gennaio
1977:
- Gioventù
repubblicana con Enzo Bianco
-
Avanguardia operaia con Giovanni Lanzone
Il
movimento giovanile odiava i comunisti: quelli del Pci erano vecchi, vecchi,
vecchi
Fiorirono
subito le domande sulla vicenda di Lama, ci si chiedeva il perché fosse stato mandato
in quella piazza, perché l’incontro combinato per quella mattina tra gli
studenti e i sindacalisti non era avvenuto. Nei scenari di risposta, il nome di
Ugo Pecchioli non mancava mai.
Ma
la risposta era semplice: L’incidente nasceva da quello che i comunisti erano
in quel periodo, dal loro grigiore, dal senso di muffa permanente, da quei
rituali e da quel particolare linguaggio di cui si erano avvolti.
E
dalla loro potenza.
Perché
i comunisti erano molto potenti, la potenza era il loro culto. Il loro partito
era celebrato come “coeso”, “militante”, la loro quotidianità definita da
“impegno” e “disciplina”. La discesa in campo del servizio d’ordine (dal ’68 in
poi) fu la loro arma di distruzione letale a cui cominciarono a fare ricorso
sempre più spesso contro gli studenti e gli estremisti.
Al
di là della retorica ufficiale, di quella unità ve n’era ben poca, ad eccezione
del ’68 e dell’”estate calda” del ’69 (Nel ’69, tuttavia, furono gli operai a
scendere in piazza e i studenti a seguirli), la realtà per tutti gli anni 60-70
era quella di botte scambiate nei cortei o davanti alla fabbriche dove gli
studenti e i gruppi volantinavano: in Campania, durante la stagione della
raccolta dei pomodori, gli operai politicizzati organizzavano imboscate per difendere
gli stagionali dal disturbo degli studenti. Oppure nei cortei del Pci nelle
manifestazioni comuni contro il fascismo, dove grandi servizi d’ordine si
occupavano di tenere lontani i cortei estremisti.
La
maggiore forza dei comunisti si allignava al suo gruppo dirigenti, in
particolare quelli situati a Roma: Reichlin, Mafai, Napoletano, Pecchioli,
Ferrara, Trombadori, Tatò, Trentin, Bufalini, Petroselli, Chiaromonte,
Quercioli.
Era
l’indiscusso senso di appartenere ad un èlite, che si mostrava nel modo di
vestire, parlare, camminare, in case piene di libri, nella discrezione totale.
Si muovevano tra loro, come un circolo esclusivo. Questi dirigenti, di origine
borghese, avevano preso nelle loro mani i valori borghesi e attiravano proprio
i borghesi.
Il
Pci amava l’ordine, l’organizzazione e la disciplina. Ogni padre comunista
voleva dal suo figlio le stesse cose che voleva un borghese: che si andasse
bene a scuola e che si trovasse un buon lavoro. A differenza dei padri
borghesi, quelli comunisti pensavano soprattutto di dover formare la classe
dirigente che avrebbe guidato il mondo… e come riuscirci se erano tutti asini
sfaccendati?
Il
movimento giovanile era all’esatto opposto: la scuola che si conosceva era
affollata, ridicola. Si pensava che la cultura trasmessa fosse noncultura, che
l’ordine fosse solo un per inquadrare, per distruggere la personalità
individuale.
La
divisione era tra la tradizione comunista sovietica del Pci e quella
anglosassone-individualistica-neomarxistica del movimento giovanile.
Quello
che molti, tra cui l’Annunziata (come lei stessa ammette), non capiscono era
che quelli del Pci erano traumatizzati, incerti e spaventati dalla propria
forza. Il movimento studentesco del ’68 e la successiva sinistra
extraparlamentare erano un imprevisto che complicava una situazione che, agli
occhi del Pci, era già sull’orlo di un abisso.
Del
resto perché non doveva esserci paura? Tutti i 12 anni di segreteria di
Berlinguer (’72-’84) furono segnati da morti ed eventi drammatici:
Nel
13.03.1972 Berlinguer viene nominato segretario, 3 giorni dopo si scopre il
cadavere di Giangiacomo Feltrinelli, dilaniato da una bomba che, pare, era
esplosa prima del tempo. L’editore di opere della pubblicazione bandita
dall’unione sovietica come il “Dottor Zivago” e colui che abbracciò Castro,
rappresenta l’imprudenza e l’audacia dei tempi, esattamente l’opposto di
Berlinguer.
Il
caso Feltrinelli fu esemplificativo di una grande novità della sinistra di
allora: l’attrazione intellettuale che esercitava sulla grande borghesia, di
cui Feltrinelli faceva parte, ma che non passava più dal Pci.
Mentre
con questo omicidio divenne chiara la percezione di una rivoluzione a venire,
che bisognava armarsi contro la repressione, i fascisti e lo Stato, per il Pci
questo atto fu una provocazione, un modo indiretto dello Stato per distruggere
la democrazia e la maggiore forza politica che questa democrazia poteva
garantire: il Pci.
Fra
queste due idee c’è un baratro. La divisione fra sinistra estrema e Pci si può
quasi ridurre al concetto di “nemico”. Sull’analisi del capitalismo, invece,
c’era qualche sintonia: il capitalismo veniva considerato economicamente e
politicamente agonizzante che portava ad una conseguenza reazionaria, al
fascismo. Si riproponeva lo schema della seconda guerra mondiale con i fascisti
cattivi contro i democratici buoni in tutto il mondo. La rivoluzione cubana,
l’esperienza cilena e il Vietnam erano la prova che il nuovo fascismo guidato
dagli Stati Uniti cercava di bloccare l’avanzata socialista con un allineamento
di forze di destra che però, come dimostrava il Vietnam, era in piena crisi di
sistema.
Nel
1975 Berlinguer (che aveva già elaborato il compromesso storico) leggeva così
la situazione politica attuale:
Tratto da “l’Unità” del 19 marzo 1975
“La
crisi italiana è parte e momento d’una crisi che investe tutti i paesi a regime
capitalista. (…) Si pensi a quale risultato potrebbe portare una cooperazione
mondiale rivolta a scoprire e utilizzare le inesauribili risorse di energia che
possono venire non solo dall’uranio, e forse più ancora del sole, dagli oceani
e dalle profondità del mare. (…) Se vogliamo gettare uno sguardo più lontano,
si può pensare che lo sviluppo di un sistema di cooperazione così vasto
potrebbe anche rendere realistica l’ipotesi di un governo mondiale che
sia espressione del consenso e del libero concorso in tutti i paesi.”
L’Italia
era in prima linea nella formazione di questa sorta di Soviet mondiale. La
reazione della destra veniva letta nell’avanzare di un fascismo strisciante,
nei timori di colpi di stato, nelle operazioni di una Dc che copriva un
risorgente neofascismo e nei servizi segreti deviati. La strage di Piazza
Fontana (12.12.1969) chiuse la stagione degli anni sessanta e del movimento
positivo, precipitando il paese nella lugubre sequela di attentati che
trasformarono la società e la politica.
Che
il fascismo, prodotto della crisi del capitalismo, fosse il punto centrale
della battaglia politica lo sostenevano il Manifesto, Lotta continua, Potere
operaio come i primi gruppi armati.
Il
baratro tra le due anime della sinistra si apre sulla domanda da chi fosse
rappresentato questo neofascismo e come fermarlo. In questa distanza tra Pci e
estrema sinistra, che si approfondisce con il tempo, il conflitto si fa interno
e nel ’77 implode.
La
strage di Piazza Fontana fu il primo atto di guerra in Italia dalla fine del
conflitto mondiale. Per la nuova sinistra fu come svegliarsi in un mondo
pericoloso e sconosciuto, per la vecchia sinistra un ritorno degli incubi del
passato.
Ma
chi era il nemico dietro quella strage? Sicuramente i fascisti e la nuova
destra… e poi? La Dc? Lo Stato? E come, o meglio, nella loro interezza? La
scrittura collettiva di un’inchiesta sulla strage vende decine di migliaia di
copie e convince altrettante persone che “la strage è di Stato.” Per la
sinistra radicale lo slogan in tutte le piazze è “Lo Stato si abbatte e non si
cambia.” Ovvero: il fascismo è lo Stato e la Dc comanda comanda lo Stato. Per
Berlinguer e il Pci la strage insegna il contrario, ovvero che la cautela non è
mai abbastanza. Il Pci era molto avveduto sulla complessità, gli intrecci e le
lotte interne di qualunque potere, questo dovuto al suo rapporto frustato con
l’URSS. La strage divenne, per il Pci, motivo di frenata.
In
Italia, intanto, il ritorno dei fascisti è chiaro: le prime elezioni regionali
della nazione, avvenute nel 1970 assegnano al Msi il 5,2% dei voi, la metà del
Psi, il doppio dei Repubblicani. Si segnala anche un goffo tentativo di colpo
di stato da parte del principe Junio Valerio Borghese, i cui fanti occupano
l’armeria del ministero degli interni nella notte fra il 7 e l’8.12.1970.
I
primi volantini delle Brigate rosse vengono diffusi a Milano nell’aprile del
1970 e in settembre alla Sit-Siemens, uno dei primi luoghi di aggregazione dei
nuclei brigatisti, viene bruciata l’automobile di un dirigente.
Tutta
la sinistra extraparlamentare scende in piazza contro il “decretone” (decreto
di legge che conteneva misure per il rilancio dell’economia), mentre la destra
fa delle marce a Milano, Torino e Roma con lo slogan “contro l’intesa dei
comunisti carri armati e paracadutisti.”
Quindi
non solo a sinistra, ma anche a destra la tattica del Pci appare “pattista”.
Nel
1971 verrà effettuato la scelta del presedente della repubblica e nel 1970 un
referendum sul divorzio ed è proprio su questi argomenti che si mostra come il
Pci fosse distante dalla società in cui viveva.
In
merito al divorzio, il vertice del Pci
Tratto da “Storia
del Pci” di G. Galli del 1993
“temeva
che il referendum avrebbe segnato la sconfitta dello schieramento divorzista
col prevalere di una maggioranza imperniata sulla Dc e sul Msi, capace poi di
determinare le condizioni per una possibile svolta autoritaria, se non per un
colpo di stato.”
Ricorda
Carlo Galluzzi:
Tratto da “Berlinguer. L’eredità difficile” di C.
Valentini
“Più
volte i sovietici ci avevano fatto sapere, attraverso gli uomini che erano più
legati a loro, che in Italia il pericolo di un colpo di stato era reale.”
È
in questa situazione che va inquadrata la volontà di Berlinguer di effettuare
una sorta di scambio: i voti del Pci per un presidente della repubblica che non
faccia precipitare la situazione. Verrà molto criticato per questa sua
ambiguità, soprattutto dal Manifesto.
Il
Pci vuole quindi creare una sorta di equilibrio tra gli argomenti più
scottanti: neofascismo, equilibrio costituzionale e divorzio. Vista la grande
importanza della Dc in questo equilibrio (perno importante ma, per il Pci,
instabile), Berlinguer cerca quindi di non turbarli. Se fosse prevalsa la Dc
avrebbe vinto il fascismo, se invece si fosse realizzato uno spostamento della
Dc, attraverso l’incontro fra le masse cattoliche e socialiste, allora sarebbe
potuto avvenire un cambiamento. Esemplificativo è il suo discorso al Congresso
quando venne eletto segretario:
Tratto da “Vita di Enrico Berlinguer” di G. Fiori del
1989
“In Italia l’incontro e il confronto tra il movimento operaio di
ispirazione comunista e il movimento popolare cattolico, ha un preciso
contenuto ed obiettivo politico: rinnovare lo stato e dare ad esso un consenso
di massa così ampio e solido da metterlo al riparo da qualsiasi involuzione
conservatrice.”
In
quella sede si esprime poi anche sulla violenza di quegli anni:
Tratto da “L’Unità” del 14 marzo 1972”
“Non
è oscuro il fatto che la Dc non ha assicurato e non assicura l’ordine nel
nostro paese. È un fatto che la strage di Piazza Fontana, la catena degli atti
di terrorismo di questi anni, le provocazioni antioperaie e antidemocratiche,
sono state favorite dal modo di governare della Dc. (…) La sfida delle forze
reazionarie alla democrazia italiana è tracotante, i pericoli sono gravi. Ma
noi questa sfida la raccogliamo. Stiano dunque attenti questi signori, stia
attenta la Dc a non rompersi la testa.”
Da
questi discorsi sono chiari i punti d’incontro tra Pci e Dc, ma anche viene
mostrata la distanza del Pci e gli autonomi, perché pur se convinti che la
democrazia fosse in pericolo, differivano interamente sull’idea che avevano del
nemico.
Per
la sinistra militante c’era solo uno scopo: abbattere la Dc. Si era convinti
che le condizioni per farlo ci fossero. Alcuni pensavano di farlo con le armi,
molti erano convinti che si potesse fare con l’emancipazione della società,
favorendo le esperienze sociali. Da ricordarsi che proprio in quegli anni c’era
il Cile di Allende a prendere da esempio.
È
proprio con il golpe del 1973 che ucciderà Allende che, probabilmente, il Pci
comincia ad avere paura. Il Cile dimostra l’impossibilità di governare anche
con la maggioranza del 51%. È anche in questo senso che si deve la volontà di
patteggiamento della Pci. Per la sinistra radicale, invece, il Cile è invece la
dimostrazione dello strapotere fascista e dell’ingerenza statunitense, uno
squarcio nel futuro di ciò che potrebbe accadere se non si resiste. Si produce
così, all’interno di entrambi le fazioni Pci-radicali, una linea di
demarcazione: da un lato coloro fedeli ai partigiani, alla resistenza,
dall’altra i rinunciatari, che ammettono che la Rivoluzione è impossibile.
Nel
1974 si inaspriscono sempre più le differenze. Come esempio evidente, il
rapimento del giudice Sossi da parte delle Brigate Rosse durante la campagna
del referendum sul divorzio.
Il
12 maggio 1974 passa il referendum sul divorzio con il 59% dei voti. Il merito
di questa vittoria può essere dato solo in minima parte al Pci, accodatosi solo
sul finale, ma soprattutto va alla sinistra extraparlamentare, radicale e
socialista. Il risultato mostra come il Pci fosse lontano dal popolo, fermo
all’idea dell’italiano conservatore e cattolico, dell’antico ruolo delle donne
e del Sud arretrato.
Seguono
diversi attacchi terroristici che, però, non rinsaldano la spaccatura tra
sinistra extra-parlamentare e Pci, anzi, la sfaldano ancora di più:
·
28 maggio 1974: A
Brescia durante una manifestazione sindacale una bomba uccide 8 persone
·
4 agosto 1974: un
ordigno sul treno Italicus fa 12 morti e 105 feriti
Seguono
manifestazioni imponenti, a cui partecipano anche i quadri del Pci. Ma dal Pci
stesso non viene nessuna indicazione concreta, pur se vanno a susseguirsi
diversi governi Dc in piena crisi nervosa.
Nel
1975 la violenza colpisce le strade, con numerosi scontri tra destra e sinistra
militanti, con vittime in entrambi gli schieramenti.
A
marzo, Mara Cagol, delle Brigate Rosse e moglie di Renato Curcio, aiuta con i
suoi compagni a far evadere il marito dal carcere.
Tratto da l’ “Unità” del 24 marzo 1975
“Sono
delinquenti comuni, prendeteli. Siete voi lo Stato.”
A
giugno le Brigate Rosse rapiscono l’industriale torinese Vittorio Vallarino
Gancia. Nel blitz della sua scarcerazione rimangono uccisi un brigadiere e Mara
Cagol. Mara diviene così un’altra icona del nuovo tipo di donna che andava
mostrandosi sulla stampa di tutto il mondo. La sua caduta sul campo per la
sinistra extraparlamentare diviene una fine romantica e aggiunge alle Brigate
Rosse un fattore emotivo di simpatia.
Arrivano
le amministrative del 1975: Il Pci i afferma con il 33%, risultato senza
precedenti, mentre la Dc scende al 35,5%. L’intera sinistra (Pci, Psi, Pdup e
Democrazia proletaria) arriva così al 46%.
Visto
il grande successo, la pressione si concentra tutta sul Pci. È un momento di
grande esaltazione ma anche di grande paura di chi teme un Eurocomunismo, come
se la vittoria della sinistra in Italia potesse spianare la via al comunismo in
tutta Europa, preoccupazione segnalata dal segretario di Stato degli USA Henry
Kissinger, proprio nell’anno in cui gli USA abbandoneranno il Vietnam.
Si
annunciano elezioni anticipate e tutti si mettono in movimento. Su tutto, due
eventi: La morte del giudice Coco da parte delle Brigate Rosse, e, soprattutto,
un’intervista a Berlinguer da parte di Giampaolo Pansa, pubblicata
contemporaneamente sul Corriere della Sera e sull’Unità (15.06.1976), da cui
estraggo un pezzo:
“Mi
sento più sicuro stando di qua… il sistema occidentale offre meno vincoli.”
Una
gesto audace, geniale e visionario, che non può infondere una montagna di
coraggio alla figura di Berlinguer.
Ma
come viene percepita dalla sinistra di allora, nutrita a base di russi-buoni
americani-cattivi? Si sente tradita e aleggia un gran senso di confusione.
Il
20 giugno 1976 elezioni anticipate: Nuovo successo del Pci con il 34,4% e
l’intera sinistra al 46,6% (sconfitto il Psi con il 9,6% e si appronta la
sostituzione di De Martino a favore di Craxi). Dc arriva al 38,8% ma non ha la
maggioranza perché non riesce a formare una coalizione. La sinistra, che si
attendeva una vittoria, si ritrova, invece, un piena palude.
A Roma riunione (anzi: ennesimo incontro) del movimento
degli studenti per la firma di accordi per liste comuni nelle elezioni dei
rappresentanti degli studenti nelle scuole. Il gruppo presente veniva da anni
di militanza politica nel movimento:
- Fgci con Massimo D’Alema e Umberto Ranieri
Spesso in
scontro con il Pdup/manifesto, la Fgci, dopo anni di minoranza, segnava una
ripresa dal 1975, quando aveva ottenuto un’ottima affermazione alle prime
elezioni per gli organi collegiali della scuola. D’Alema era divenuto
presidente del Fgci nel 1975. Iscritto al Pci ma non alla Fgci, arriva
consigliato dalla Pci (seppure gli altri candidati, tra primo Amos Cecchi,
fossero più popolari), per evitare che la Fgci divenisse troppo estremista,
dopo che Achille Ochetto aveva voluto, come segretario del Fgci dal ’63 al ‘66,
un’apertura al movimento studentesco. Infatti già allora D’Alema mostra di
essere il funzionario di partito, dal pugno di ferro contro l’estremismo anche
se a scapito del movimento.
- Lotta Continua con Luigi Manconi e Gad Lerner
Manconi,
attivo dirigente di Lotta Continua, aveva passato un breve periodo in carcere.
Lerner veniva dai micidiali collettivi del Berchet di Milano, il liceo più
politicizzato di Italia.
- Gioventù
repubblicana con Enzo Bianco
-
Avanguardia operaia con Giovanni Lanzone
- Pdup/manifesto con la stessa Annunziata e Familiano Crucianelli
Erano i
responsabili scuola del Pdup, cioè l’unico settore di massa del partito, spesso
in scontro con Fgci.
- Giovani socialisti con Roberto Villetti
- Dc (nessuno ricorda il nome della giovane presente).
Visti i contrasti tra i vari gruppi (tra cui lo scontro
Fgci-Pdup/manifesto), aver accettato di sedere tutti intorno a un tavolo era
come ammettere che il movimento degli studenti nato nel ’68 aveva raggiunto la
sua fase terminale. Il Fgci, con i recenti successi ottenuti, era convinto di
poter sedere al tavolo guida dei movimenti universatari, se ne fa promotore
D’Alema, parlando della grandezza del Pci e della sua tradizione.
Per tutti gli anni settanta le piazze erano state quasi
tutte dell’ex movimento degli studenti, evolutosi poi in tanti gruppi politici.
Soprattutto si promuovevano campagne che incedevano le coscienze dell’opinione
pubblica: La strage di stato (probabilmente l’Annunziata si riferisce ai fatti
di Piazza Fontana del ’69), appoggio alla campagna per il divorzio, denuncia
della dittatura URSS pur ribadendo i valori del vero socialismo e della
rivoluzione culturale delle masse.
La colonna sonora del movimento è costituita dalla “Febbre
del sabato sera” dei Bee Gees e dall’esplosione del punk con i Clash, i Sex Pistols e i Ramones.
Arriva anche la TV a colori a modificare le abitudini; il
“Mistero buffo” di Dario Fo va in onda a puntate dal 24 febbraio 1977, intanto
si conclude “Carosello”, trasmissione pubblicitaria con sketch, mito della
generazione del ’68.
Si parlava già di globalizzazione, usati per lo più dagli
operaisti a sottolineare la dequalificazione e massificazione prodotte dalla
riorganizzazione capitalistica in atto nel mondo. Ma la globalizzazione era già
in corso e aveva il significato di un rinnovamento culturale, un abbattimento
della guerra fredda nella mentalità giovanile, con l’influenza delle èlite
intellettuali mondiali, della nuova borghesia e delle nuove professioni, di una
classe media.
Vi sono dei simboli di questo cambiamento: in parte
Giangiacomo Feltrinelli, ma soprattutto lo schierarsi della giornalista
Camillla Cederna (inviata de “L’Espresso) sulla strage di Stato e l’uccisione
di Giuseppe Pinelli e contro il presidente del consiglio Giovanni Leone,
culminata nel ‘78 con il suo libro inchiesta “Giovanni Leone. La carriera di un
presidente”. Contro di lei le polemiche da parte diel giornalista Indro
Montanelli, dichiaratamente anticomunista e decisamente bonario nel rivalutare
le colonizzazioni italiane. Due rappresentanti dell’èlite milanese, due grandi
intellettuali atti a dimostrare la spaccatura delle classi intellettuali.
Un altro indice di modernità e di emancipazione del paese
era stata la campagna per il referendum sul divorzio e anche lì il movimento
aveva colto meglio dello stesso Pci l’umore del paese. In quegli anni sembrava
che l’Italia si stesse liberando dall’egemonia cattolica, simbolo proprio la
riforma del ruolo della donna in atto.
E la forza dell’estrema sinistra era stato quello di
intercettare la nuova comunità di cittadini che il capitalismo moderno stava
formando, soprattutto l’ideologia della massima libertà di pensiero
individuale, a complemento del forte senso del diritto individuale che maturava
in quegli anni. L’estrema sinistra era convinta che la liberazione individuale
avrebbe portato al rifiuto dell’autoritarismo sovietico come anche quello
capitalista. Ma più tardi ci si sarebbe accorto che quegli accenni non erano un
sintomo di morte del capitalismo, bensì una sua evoluzione in una società che
non guardava più alle classi bensì ai servizi e al ceto medio. Indice ne fu la
nascita e la diffusione del computer, scienza allora ignota al movimento. Tale
società avrebbe poi portato a un’identità liberale sul terreno sociale, attenta
ai diritti individuali e al benessere dei singoli. Sarebbe diventata, quindi,
estranea alla rivoluzione che si voleva mettere in atto negli anni ’70.
E questa evoluzione nel ’77 si mostra e investe la
politica, il Pci come anche i vari gruppi. Tuttavia, nonostante l’errore di
fondo, la sinistra radicale, con i suoi slogan e ideali antiautoritario e
sperimentalista, si fa portavoce di tale evoluzione. Da non dimenticare che
questi gruppi offrono al cittadino un rapporto più diretto con la politica,
invece dell’austero Pci e dei suoi giochi. Ad esempio è chiaro che
l’atteggiamento antifascista era una conseguenza di tutti gli anni in cui un
unico partito, la Dc, aveva avuto il potere (senza dimenticare i suoi legami con
la destra). Ma mentre ci si indignava per la strage di Piazza Fontana, il Pci
andava incontro al compromesso storico (ad esempio facendo eleggere Leone
presidente del consiglio), nonostante divenisse sempre più forte. Un simile uso
dei voti e del potere raccolto ai molti faceva pensare a un cedimento etico e
politico del Pci.
Ma anche il movimento aveva i suoi punti deboli:
Il suo successo tra le persone non si era mai trasformato
in consenso elettorale. Certo, alcuni gruppi si dichiaravano fieramente extraparlamentari,
ma la praticamente tutti, chi più e chi meno, avevano provato l’esperienza
politica senza raccogliere alcun successo. Questo fatto avrà le sue
conseguenze, ovviamente, anche a livello politico (molto orientato verso il
centro con deviazioni a destra).
Alle elezioni politiche del maggio 1972 si presentano le
varie formazioni. I risultati sono deludenti:
- Il manifesto 0.6% e nessun seggio alla camera. Al senato aveva invitato a votare Pci. Tra i candidati anche l’anarchico Pietro Valpreda, seppure ancora in carcere per le accuse della strage di Piazza Fontana. Nonostante la fama nel circuito extraparlamentare (a marzo 1972 vi erano state manifestazioni per la sua liberazione) Valpreda non viene eletto.
- Psiup 1.9% e nessun seggio (a luglio si scioglierà e la maggioranza confluirà nel Pci).
- Partito comunista ML 0.26%
- MPL 0.36% e nessun seggio (si scioglierà presto e la maggioranza confluirà nel Psi).
Questa sconfitta segna un cambio del rapporto tra queste
sinistre e il Pci. Il Pci era infatti il “padre spirituale” da cui erano
partiti i movimenti, ora, dopo le elezioni politiche, diviene anche il “padre
politico”, dimostrazione che è il Pci ad avere peso politico e che chi volesse
averlo deve affiliarsi a loro. La Pci, nonostante le ovvie mancanze, continua a
macinare consensi, è la roccia politica della sinistra italiana.
Ai tempi il movimento e la sinistra extraparlamentare non
ammetteva la forza del Pci e la sua influenza politica, come anche il rapporto
di dipendenza che così si creava tra i piccoli partiti e il Pci.
Interpretavano, anzi, i successi politici del Pci come frutto del loro lavoro,
dal loro lavoro ai fianchi sull’elettorato. Ma di fatto la sinistra
parlamentare, pur con il consenso di piazza, politicamente era divenuta la spina
nel fianco e contemporaneamente sostenitrice del Pci.
In quest’ottica e visto i risultati del 1972, si può vedere
che l’estrema sinistra ha fallito, dopo il ’68, nell’incarico di riformare la
politica, o meglio la sinistra italiana.
Il
1976 e le relative elezioni anticipate del 1976 sono un chiaro segno dello
stato malato del movimento: la crisi organizzativa del movimento attraversa
tutta l’area e l’investimento che questi compie a favore di voti per il Pci. Ma
nonostante l’ottimo risultato dei comunisti non vi è un radicale cambiamento
degli equilibri politici e questo da un altro duro colpo all’identità della
sinistra radicale. Analizziamo, ora, questi due elementi:
Già nel 1971
Adriano Sofri, leader carismatico di Lotta Continua, in un ‘intervista all’”Espresso”
dichiara che “La sinistra extraparlamentare non esiste più. Le uniche
formazioni che esistono davvero sono la nostra e Potere operaio, e su un altro
piano manifesto e Avanguardia operaia.” Quindi secondo Sofri la sinistra
extraparlamentare nata direttamente dal movimento con tutte le varie sigle ha
già segnato un passaggio nel 1972. Sempre nel 1972 molti ritornano al Pci:
-
il Fgci che passa
da 85'000 a 112'000 iscritti (nella maggior parte si tratta di militanti che
tornano a casa).
-
Tornano gli intellettuali
come Asor Rosa (scrittore, critico letterario e politico di ideologia marxista)
e Mario Tronti (filosofo, considerato uno dei principali fondatori dell'operaismo
teorico degli anni sessanta).
-
Tornano anche Aldo
Natoli, che aveva scisso i rapporti dando vita a il Manifesto, e Lucio
Colletti, professore-ispiratore per anni della sinistra radicale.
Nel 1972 si
paga anche la delusione della sconfitta alle elezioni del 1971, inoltre bisogna
anche tener conto che le Brigate Rosse, fondate già nel 1971, cominciavano ad
erodere il movimento.
Nel
1973 il movimento studentesco in senso stretto ha presenza solo a Milano con
Mario Capanna, Turi Toscano e Luca Cafiero. In Avanguardia Operaia troviamo una
costola del movimento studentesco; nata nel ’68 ha una matrice operista. In
essa confluiscono i Cub, i marxisti leninisti e trotskisti.
Potere
operaio è un po’ un argomento a parte. In esso converge il (ricco) filone
dell’operaismo italiano degli anni sessanta e la sua influenza si fa sentire
come critica a sinistra del Pci. Ma anche Potere Operaio nel 1973 è ridotto a
un gruppo irrigidito (i nomi più noti sono Oreste Scalzone, Franco Piperno e
Toni Negri).
L’organizzazione
più forte e vitale di quegli anni è Lotta Continua. Questo grazie tanto anche
al carisma di Adriano Sofri. Non hanno una linea precisa ma mobile ed energica,
misurata sulla società. È da questa organizzazione che nascono una serie di
esperienze nuove: il lavoro nelle caserme, la contestazione femminista e quella
degli omosessuali, i carcerati come soggetto politico. Sono tutte realtà fuori
dal contesto (a volte rigido) dell’operaio. Utilizza anche i media in senso
moderno: seppure non è la prima ad aprire un giornale (chiamato, appunto, Lotta
continua), ma è usato in maniera anti-autoritaria. La rubrica delle lettere
misurerà a lungo il polso della militanza di base.
Il
Manifesto (nato nel 1971) resta invece un giornale classico, così impeccabile
nella sua formulazione da assorbire l’identità (e la sigla) del gruppo che l’ha
creato. È comunque il gruppo più recente della sinistra extraparlamentare, ad
esso si aggregano intellettuali e quadri dirigenziali di tendenza ingraiana. Il
gruppo non è grande, ma con il giornale fa sentire molto forte la sua voce.
Tra
tutti questi gruppi aleggia un’idea comune: Il Pci entrerà in una grave crisi,
complice il suo intrappolamento nel suo rapporto con il DC; quindi bisogna
rifondare un’alternativa politica di sinistra. Su questo punto le posizioni
erano diversi:
-
Il nuovo frontismo
gramsci con il Manifesto in prima linea punta a essere il punto d’unione tra la
sinistra estrema e la rassegnazione del Pci.
-
Lotta continua
punta alla rivoluzione sociale.
-
Potere operaio
puntava invece allo scontro frontale.
Ma tutte si dovevano confrontare con l’unica alternativa al capitalismo
che appariva come più lineare e anche come la più fascinosa: la lotta armata
proposta principalmente dalle Brigate Rosse.
Le azioni delle Brigate Rosse proprio dal ’73 si fanno più frequenti e
spettacolari. Sono comunque azioni circoscritte, in parte meno efficaci degli
scontri dell’antifascismo militante a cui si è abituati dopo la strage di
Milano. Ma nel movimento la tematica della rottura rivoluzionaria è irrisolto.
Lotta continua e Potere operaio la teorizzano, ma in via ipotetica e senza
organizzarli a fondo. Le soluzioni diverse dalla lotta armata funzionano
ancora, ma soprattutto perché c’è il successo di piazza dei vari gruppi.
Eppure la violenza continua ad avere il suo fascino, come dimostra un
articolo del 18 maggio 1972 del quotidiano “Lotta continua” (il giorno dopo
l’uccisione del commissario Calabresi (da molti considerato tra i primi
responsabili della morte di Pinelli del 1969):
“(…) tacere quella verità che abbiamo
sempre detto ad alta voce: che Calabresi era un assassino (…) L’omicidio
politico non è certo l’arma decisiva per l’emancipazione delle masse (…). Ma in
queste considerazioni non possiamo
assolutamente indurci a deplorare l’uccisione di Calabresi, un atto in cui gli
sfruttati riconoscono la propria volontà di giustizia.”
Intanto a spargere benzina sul fuoco ci pensa il ’74, in cui cresce la
tentazione radicale e il successo della sinistra extraparlamentare: il
rapimento del magistrato Sossi del 18 aprile, la bomba a Brescia del 28 maggio,
le strage sui treni del 4 agosto, l’arresto e la fuga di Curcio tra quell’anno
e il 1975, la morte della sua compagna Mara Cagol nel 1975.
Si arriva così alle regionali del giugno 1975: Pdup e Ao, impegnati in
un processo di unificazione, si presentano assieme (diverranno nel 1976 il
cartello elettorale Democrazia Proletaria), mentre Lotta Continua invita a
votare Pci “per spingere i comunisti nelle braccia dei moderati”. Risultato
finale: 1.5%, mentre il Pci arriva al 33%. Silvano Miniati e Giangiacomo Magone
vanno, dopo la sconfitta a parlare con il Pci: “Non abbiamo mai pensato ad una
scissione (…) Se il Pci vuole evitare l’esplosione di una rabbia massimalista
deve proporsi obiettivi di lotta, non i giochino della Dc.” Quindi il Pdup
cerca sì un’alleanza, pur se mette le mani avanti, dichiarando, in sostanza,
che il Pci non deve divenire subalterno alla Dc o essere coinvolto in giochi di
potere.
Ed eccoci alle elezioni politiche del giugno 1976: altra e definitiva
batosta della sinistra radicale, rinnovato successo della Pci (33,8%). Il Pci è
quindi al suo massimo splendore, eppure…
Eppure nel mondo tira un’aria pesante per i comunisti: il Watergate USA
del ’74 e, soprattutto, il disastro Vietnam del ’75, fa temere dei colpi di
coda verso governi che all’interno abbiano una forte componente comunista. Il
cancelliere socialdemocratico tedesco, Helmut Schmdit, proprio di fronte al
clima di quegli anni (incluso anche il successo del Pci) è dell’opinione che i
timori statunitensi possano avere conseguenze negative sull’Italia. In Italia
anche Gianni Agnelli (dietro cui si allineano numerosi imprenditori), in
un’intervista al Corriere della sera dopo il voto, invita ai due partiti
principali a fare “esercizio di realismo: la Dc fare “buon uso dei voti”, il
Pci “che rinunci nelle circostanze attuali a far parte del governo.”
Sotto quest’aria timorosa, Berlinguer si astiene alla scelta di un
governo Andreotti e in cambio ottiene la presidenza della Camera per il suo
Pietro Ingrao (la quale, tuttavia, risulterà ben poco utile). Questa scelta è
per l’estrema sinistra l’ultima goccia che fa traboccare il vaso della fiducia
nella Pci. Ma anche per la base del Pci questa scelta è un trauma. È da questa
scelta che inizia a nascere la cosiddetta “crisi di militanza”, con un
ritrarsi, soprattutto dei giovani, da un impegno politico attivo.
Il 1975 è anche l’anno in cui nascono 2 festival di musica, ispirati al
Woodstock statunitense. Saranno fatti in estate a Licola (Napoli) e a Parco
Lambro (Milano) e porteranno una folla che da tempo non si vedeva nelle
manifestazioni politiche. Infatti i festival si ispirano teoricamente alla
politica attuale (la festa di Licola viene infatti organizzata da Lotta
continua, Manifesto e Avanguardia operaia), ma conta più la musica e il
divertimento. I temi dominanti sono comunque politici (femminismo, gay e
antiautoritarie) che i gruppi cavalcano, soprattutto Lotta continua, ma che
rimangono comunque lontano dalla politica che i piccoli partiti extraparlamentari
stanno seguendo. Sempre in questo fermento di liberazione si inserisce anche il
successo del romanzo “Porci con le ali” (uno dei due autori, Marco Lombardo
Radice, appartiene a Lotta continua).
Altro
elemento correlato è la droga usata dai nuovi giovani. Nel movimento ci sono
gli schieramenti: chi condanna la droga, chi la mitizza. Intanto l’eroina
dilaga, infatti i tossicodipendenti aumenteranno da 10mila nel 1976 a 60mila
nel 1978, provocando più morti che le vittime degli anni di piombo.
Tutti
questi cambiamenti mostrano chiaramente come il giovane che si affaccia alla
fine degli anni ’70 sia diverso dai “sessantottini”, come è cambiata la loro
mentalità e il loro rapporto con la politica.
Ed
è ancora una volta Lotta continua a capire per prima il cambiamento. Il suo
leader, Adriano Soffri, porta questo anomalo partito al suo secondo congresso,
tra il 31 ottobre e il 5 novembre 1976. Riconosce la sconfitta elettorale e ne
propone lo scioglimento. In quel discorso, Soffri, ne ha per tutti: per il suo
partito, ma anche per il Pci, che si è trasformato in uno strumento di
costruzione di consenso degli operai, legittimando la ristrutturazione
capitalistica dei padroni. Dichiara che il movimento studentesco è finito, che
partiti come Pdup e la stessa Lotta continua sono piccole organizzazioni senza
certezze sul futuro. “Bisogna scegliere tra realismo politico e utopia
politica. Chi sta per il primo può andarsene altrove.”
Nel gennaio del 1977 il Pdup e il Manifesto si scindono. Il Pdup poi,
in febbraio, si scinde: da una parte la sinistra (con i “moderati” di Magri da
una parte e la “sinistra” di Rossanda dall’altra). Scioltosi da Lotta Continua,
il Pdup sopravviverà ai terremoti dei movimenti, ma più sottoforma di
collettore che di effettiva rappresentanza. Alla fine molti ex militanti Pdup
finiranno nelle braccia della resistenza armata.
Ed
è con questa atmosfera, quasi da Göttedämmerung, che i rappresentanti del
movimento si ritrovano riuniti al tavolo di cui si parlava ad inizio capitolo.
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